Il Cronovisore: la macchina del tempo di padre Pellegrino Ernetti
“Elì, Elì, lammà sabactani?”, “Dio, Dio, perché mi hai lasciato?”, furono le ultime parole del Cristo sulla croce. Ma ne siamo certi?
“Alea iacta est!”, “Il dado è tratto!” disse Cesare varcando il fiume Rubicone. Ma ne siamo sicuri?
“Tu quoque, Brute, fili mi!”, “Anche tu, Bruto, figlio mio!”, sembra siano state le ultime parole dello stesso Cesare nel giorno delle Idi di Marzo del 44 a.C. Ma come possiamo accertarlo?
“Perchè non parli?” avrebbe detto, quasi irato, il grande Michelangelo appena posato lo scalpello che aveva tratto dal marmo il suo capolavoro scultoreo, il ‘Mosè’, ora conservato nella chiesa di S. Pietro in Vincoli, a Roma. Ma come possiamo separare la leggenda dalla verità storica?
Sarebbe necessario essere stati sul luogo dell’avvenimento, aver udito con le nostre orecchie – verso l’anno 30 della nostra Era – le frasi effettivamente pronunciate dall’Uomo che ha modificato il modo di vivere, di pensare, di credere di gran parte del mondo occidentale; avremmo dovuto essere anche noi – nel 49 a.C. – tra le truppe di Gaio Giulio Cesare (100 – 44 a.C.) per vedere e udire il Pontefice Massimo, il Pretore, il Dittatore che osava superare il ‘limite sacro di Roma’, imposto da Lucio Cornelio Silla (138 – 78 a.C.), attraversando un quasi sconosciuto fiumiciattolo – con il fondo di ghiaia di colore rubeus, cioè rossiccio, da cui Rubicone – situato tra la Gallia Cisalpina e l’Italia propriamente detta.
Quanto ne potremmo sapere del passato?
Oppure essere appostati dietro la statua di Pompeo ad ascoltare il grido di doloroso stupore dello stesso grande personaggio ucciso in una congiura capeggiata anche da Marco Giunio Bruto (85-42 a.C.), uno tra gli uomini a lui più vicini.
Avremmo, infine, dovuto avere la fortuna di far parte della ‘bottega’ del grande artista rinascimentale per sapere con esattezza cosa disse effettivamente Michelangelo Buonarroti (1475-1564) al termine della sua fatica artistica.
Ma tutto ciò non è possibile: avremmo dovuto poter viaggiare a ritroso nel tempo, fermandoci in ogni diversa epoca storica nel luogo esatto dell’avvenimento, indovinare con estrema esattezza l’hic et nunc, il ‘qui ed ora’, le coordinate spazio-temporali in cui l’evento si era effettivamente verificato. Solo nel mondo della science-fiction ciò sarebbe possibile.
Oppure no: forse sarebbe veramente possibile almeno udire – forse vedere! – le parole pronunciate nel passato non solo da rilevanti personaggi storici, ma da chiunque, da noi stessi, pochi minuti fa.
Basterebbe – facile a dirsi! – poter ‘estrarre’ dagli oggetti, da ciò che era presente sul… ‘luogo del delitto’, le ‘informazioni’ imprigionate nella materia che li compone: informazioni acustiche derivanti dalle parole pronunciate davanti agli ‘oggetti’, informazioni visive – le immagini – ‘impresse’ dagli avvenimenti accaduti davanti ad essi. “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, ci ha insegnato il grande Lavoisier alla fine del XVIII secolo.
E = mc2 , ci ha inoltre insegnato un fisico forse ancor più grande – Albert Einstein – nei primi decenni del secolo appena trascorso: la materia e l’energia (E sono tra loro strettamente collegate ed è possibile la trasformazione dell’una nell’altra, a volte con esiti tremendi, come, purtroppo, Hiroshima e Nagasaki hanno tristemente dimostrato.
Il Cronovisore e le forme di energia
Ciò che è importante considerare è che le varie forme di energia, luminosa e acustica, che colpiscono la materia inanimata o i nostri organi di senso – secondo la teoria del fisico italiano Cesare Colangeli, che più avanti cercherò di riportare in pochissime parole – non vanno disperse dopo essere state emesse: esse ‘trasformano’ – per così dire – la materia, rimanendo ‘imprigionate’ in essa sotto forma di una diversa disposizione di particelle che – sempre secondo lo scienziato italiano e un altro fisico, purtroppo scomparso nel Febbraio del 2001, l’amico professor Don Luigi Borello – comporrebbero la materia stessa.
Ma sulla ‘teoria’ tornerò più avanti: vorrei qui solo accennare al mio ‘incontro’ – mai personale, purtroppo, ma solo telefonico ed epistolare – con il Professor Borello e con i suoi studi su quella che egli stesso definì Cronovisione.
Soddisfare la nostra curiosità
Occupandomi, in ambito universitario, in particolare di Archeometallurgia – soprattutto dello studio di alcune antiche tecniche di fabbricazione di reperti in oro e argento, del V-III secolo a.C., di provenienza fenicio-punica – spesso mi sono chiesto come effettivamente fossero state effettuate alcune lavorazioni, di cosa disponessero in realtà quegli antichi artigiani, come fosse organizzata la loro ‘officina’, cosa avvenisse intorno a loro, cosa si dicessero, mentre, chini su quei minuscoli ma perfetti monili, ‘saldavano’ microscopiche sferette d’oro a degli orecchini che susciterebbero l’invidia anche dei moderni orafi.
I quali dispongono di attrezzature – ma di lenti soprattutto! – ben più raffinate. Insomma, il sogno di qualsiasi archeologo, di qualsiasi storico – ma anche di qualsiasi uomo di legge che indaghi su un delitto – sarebbe quello di ‘far parlare i muri’, come vuole un significativo detto popolare, di far ‘parlare’ il testimone diretto degli avvenimenti: l’ambiente in cui ebbero luogo gli avvenimenti stessi.
Ma, su quali princìpi si basa lo studio sulla ‘Cronovisione’?
Sarebbe estremamente arduo, in poche righe, riassumere sia le complesse teorie del fisico Cesare Colangeli, elaborate intorno agli anni ’50, sia i princìpi applicativi su cui potrebbe basarsi il Cronovisore del professor Don Luigi Borello: suggerirei quindi la lettura dell’interessante opera di questo studioso recentemente scomparso Come le pietre raccontano (Gribaudo Editore, 1989) e anche una ‘capatina’ al mio libro Manuale di Psicotronica Sperimentale (Eremon Edizioni).
In base a quanto esposto nell’opera citata, ma soprattutto in funzione di colloqui telefonici e contatti epistolari avuti proprio con il professor Borello, anni fa avevo intrapreso una personale sperimentazione, disponendo anche di gran parte della strumentazione necessaria: debbo confessare che il maggior ostacolo lo trovai proprio nell’impossibilità di realizzare il ‘trasduttore’, la ‘sonda SLB’ come la chiamava l’amico studioso di Varazze il quale, su tale argomento, non fu mai estremamente… prodigo di notizie.
Il processo di memorizzazione e il Cronovisore
Ma ecco in estrema sintesi – con le parole dello stesso Borello, tratte da un’intervista rilasciata all’amica giornalista Carolina Giorgi de ‘La cronaca di Mantova’ – come avverrebbe il processo di ‘memorizzazione’ di stimoli acustici e luminosi nella materia inanimata.
“…Bisogna entrare un po’ in quella che è la teoria neutrinica di Cesare Colangeli […] da essa emerge, in due parole, che tutta la materia esistente è costituita essenzialmente da due particelle elementari: positrino (+) ed elettrino (–) che unendosi formano il neutrino (particella, questa, intesa in un’accezione diversa da quella usuale della Fisica nucleare. N.d.A.), la particella neutra. […] La registrazione consiste proprio in linee di neutrini polarizzati, cioè attivi, in quanto costituiti da componenti di positrini ed elettrini leggermente sfasate…”.
Un ‘anacronistico’ trasformatore elettrico
Riguardo la possibilità che gli stimoli acustici e luminosi si imprimano nella materia come una sorta di ‘Babele’ da cui sia impossibile trarre informazioni coerenti ed utili, il professor Borello chiarì che “… questo non accade per il fatto che i ricordi si imprimono in successione. Un tratto di linea già registrato può essere influenzato e modificato, ma una nuova registrazione viene costituita solo dai neutrini ad essa affiancati, quindi successivi; diciamo che nel corso del tempo la catena si allunga.”.
Purtroppo, ora, il professor Don Luigi Borello è ‘altrove’ e i suoi esperimenti, le sue idee dovranno essere sviluppate da altri ricercatori interessati a queste affascinanti ricerche. Vediamo ora chi altri si è interessato alla possibilità, con mezzi tecnici, di captare voci e suoni ‘dal passato’.
Padre Pellegrino Ernetti e il Cronovisore
Nei primi anni ’70 fece scalpore la notizia che il benedettino Padre Pellegrino Ernetti, docente di Musica Prepolifonica presso il Conservatorio ‘Benedetto Marcello’ di Venezia, aveva messo a punto una ‘macchina’ in grado di ‘vedere il passato’.
Non sono noti i princìpi di funzionamento di tale apparato – data l’estrema, eccessiva ‘riservatezza’ mostrata da Padre Ernetti nei confronti dei cosiddetti organi di stampa e dei ‘media’ in genere – ma si suppone fossero basati anch’essi sul principio che ‘nulla si crea, nulla si distrugge’ e che, quindi, ogni suono emesso, ogni immagine prodotta nel corso della storia non vada dispersa ma ‘in qualche modo’, si conservi come forse aveva inteso scrivere anche Michel de Notredame nelle sue contestatissime ‘Centurie’…
“…Le grand tappis pliè ne monstrera,
fors qu’à demy la pluspart de l’historie…”
ovvero…
“…La grande pista incisa avvolta ne mostrerà
forse che alla metà la maggior parte della storia…”
(Nostradamus, Centurie VI, 61)
Naturalmente per chi ha fiducia nelle capacità ‘divinatorie’ del medico di Saint Remy de Provence! Purtroppo gli ‘organi di stampa’ in mancanza di informazioni dirette… le produssero autonomamente.
Sul numero 18, del 2 Maggio 1972, della mai dimenticata ‘Domenica del Corriere’ comparve un articolo del giornalista Vincenzo Maddaloni, intitolato ‘Inventata la macchina che fotografa il passato’, in cui si descriveva a grandi linee il Cronovisore di Padre Ernetti e – dulcis in fundo – si pubblicava addirittura una bella fotografia del volto del Cristo sulla croce, affermando che era stata ‘captata’ dagli strumenti dello studioso benedettino.
Ma due mesi dopo, quando l’argomento sembrava assumere l’importanza meritata – proprio in cauda venenum, alla fine – un lettore di Roma, Alfonso De Silva, faceva osservare che la foto del Cristo era identica, ma ‘speculare’, ad un Cristo ligneo, opera dello scultore Cullot Valera, conservato nel Santuario dell’Amore Misericordioso di Collevalenza nei pressi di Todi (Perugia).
Echi dal passato
Da Padre Ernetti non arrivò alcun commento e così la ricerca degli ‘echi dal passato’ e l’argomento ‘Cronovisione’ furono accantonati. Almeno… ufficialmente. Ma proseguiamo.
Alla fine di questa strano excursus tra le teorie e i tentativi, a volte solo embrionalmente riusciti, per cercare di ‘udire’ la ‘voce del passato’, vorrei infatti accennare ad un metodo descritto, anche se solo nelle sue linee essenziali, da un ricercatore americano nel campo dell’elettronica, Richard G. Woodbridge, e pubblicato sul N° 8, Volume 57, dell’Agosto 1969 sui ‘Prooceedings of the Institute of Electrical and Electronics Engineers ‘ (pagine 1465-1466).
L’articolo – in mio possesso – si intitola ‘Acoustic Recording from Antiquity’ e parte da un assunto iniziale abbastanza convincente, almeno nelle sue linee generali.
Cronovisore come registratore di suoni?
Quando l’antico artigiano produceva nella sua bottega – utilizzando il tornio da vasaio – un qualsiasi prodotto fittile, una piccola anfora, ad esempio, sicuramente era circondato, avvolto, da innumerevoli suoni, rumori, voci: il rumore del suo piede sulla ruota del tornio, la voce sua e di chi lo aiutava nella produzione vascolare, permeavano tutto l’ambiente e colpivano – oltre le sue orecchie – anche la morbida argilla che, piano piano, prendeva forma sotto le sue mani.
Come nel primitivo, rudimentale ma efficace apparato per la registrazione dei suoni inventato da Thomas Alva Edison nel 1887 – in base ad un idea del singolare poeta e scienziato Charles Cross – utilizzante un cilindro ricoperto di morbida cera sulla quale il ‘messaggio’ si imprimeva mediante l’azione di una punta mossa da un diaframma colpito proprio dalla voce dell’inventore, nel caso del vasaio è abbastanza probabile che ogni suono emesso davanti all’argilla ancora nella fase plastica potesse imprimersi in essa, giro dopo giro, e con un opportuno trasduttore possa oggi essere ‘letto’ e ‘risentito’, anche se in maniera estremamente confusa.
Immaginiamo ora un pittore che dipinga un qualsiasi soggetto parlando con qualcuno, contemporaneamente, davanti alla tela: non è inpossibile – soprattutto nella fase finale del dipinto, quando i ‘colori’ sono ancora estremamente fluidi, ancora plasmabili – che le voci permeanti l’ambiente possano ‘imprimersi’ nella pasta colorata come se essa fungesse da substrato in grado di registrare suoni e voci, similmente al cilindro ricoperto di cera di Edison. Anche qui science-fiction?
L’articolo di Woodbridge
Sembra proprio di no: Woodbridge, nel suo articolo scientifico – pubblicato non su una rivista di divulgazione ma sui Proocedings, gli Atti ufficiali, di un accreditato istituto universitario statunitense – sostiene di aver usato come trasduttore una ‘cartuccia’ piezolettrica simile a quella impiegata nei giradischi, collegata ad un opportuno apparato di amplificazione.
Essa era fissata su un dispositivo in grado di spostarsi – con movimenti simulanti entro certi limiti quelli del pittore – su un dipinto realizzato appositamente disponendo una intensa sorgente sonora, riproducente musica, davanti alla ‘pasta colorata’ ancora nella fase plasmabile: per quanto possa apparire strano, l’autore dell’articolo sostiene che “… short snatches of the original music could be identified.”, cioè fu possibile identificare corti brani della musica originale! Naturalmente furono effettuati vari tentativi con differenti quantità di ‘pasta colorata’, variando il suo spessore, gli strati, l’intensità della sorgente sonora, la ‘velocità di scansione’ del ‘trasduttore’, ecc., ma l’esperimento sembra sia spesso riuscito. Ciò indurrebbe a proseguire le ricerche anche in tale direzione.
Sarebbe estremamente emozionante udire anche una sola parola di un qualsiasi oscuro pittore scaturire da un qualsiasi dipinto adatto allo scopo: certamente non la voce di Leonardo da Vinci davanti alla sua ‘Gioconda’ – come nella finzione letteraria ipotizzano Roberto Vacca e Cristiana Ambrosetti nel loro romanzo “Il Labirinto della memoria” – ma qualunque ‘voce’, qualunque ‘suono’ identificabile, qualunque indizio che sia possibile recuperare, quindi non solo le ‘tracce’ lasciate ad arte da chi ci ha preceduti, ma anche involontari, suggestivi “echi dal passato”.
di Roberto Volterri
tratto dal libro Archeologia dell’Impossibile
Tecnologie degli Dèi
AUTORE: ROBERTO VOLTERRI
PREFAZIONE: MARIO PINCHERLE
FORMATO: 16 X 23
PAGINE: 164
ISBN: 978-88-89713-19-8
Archeologia dell’Impossibile
Sarebbe ben arduo sperare di rintracciare in qualche Museo alcuni dei reperti descritti in questo libro. Perché? Ma è semplice: perché… non esistono o non sono mai esistiti. Almeno ‘ufficialmente’… Questo lavoro vorrebbe, quindi, colmare tale lacuna e dovrebbe essere inteso come un vero e proprio manuale di “Archeologia eretica”, indispensabile a tutti quei ricercatori dell’ignoto che vogliono affrontare uno studio sperimentale sulle “possibili tecnologie antiche”, con l’indispensabile apertura mentale necessaria ad intraprendere una strada irta di ostacoli, ma soprattutto nel pieno rispetto dell’ortodossia scientifica.
L’Autore, pur occupandosi in ambito universitario degli aspetti più concreti della ricerca archeologica, ha tentato di ricostruire impossibili oggetti, basandosi in alcuni casi su testi biblici, in altri su testimonianze storiche e in qualche caso facendo “atto di fede” nei confronti di qualche studioso del passato che ha sostenuto di averli visti o di averli realizzati egli stesso. Pile di Bagdad? Lampade di Dendera? Arca dell’Alleanza? Cronovisore? Lumi eterni? Bussola Caduceo? Specchi ustori? Urim e Tummin? Lente di Layard? Sono degli oggetti “impossibili”… ma non per tutti e, seguendo le indicazioni fornite in questo libro, anche voi riuscirete a realizzarli facilmente!